Chi ultimo arriva peggio alloggia

La tacita richiesta insita nelle discussioni e nei provvedimenti della nostra Repubblica è quella di accettare che la propria condizione di ultimi arrivati, e quindi svantaggiati, sia inevitabile e da subire con accondiscendenza.

La condizione di ultimo arrivato può toccare a chiunque, si può diventare ultimo a qualsiasi età. Da bambini quando si comincia il proprio percorso scolastico, da studenti in balia di riforme e controriforme, da neodiplomati ad affrontare il mondo universitario e lavorativo, da disoccupati e in cerca di un nuovo impiego, da lavoratori alla soglia della pensione.

Ebbene si, questa la moltitudine di persone che affronta quotidianamente il danno e la beffa di essere l’ultimo arrivato e di trovarsi a rosicchiare le croste di chi per anni ha avuto l’intera forma di formaggio e l’ha divorata senza criteri né lungimiranza.

Ci si ritrova così ad avere un sistema scolastico sempre più in crisi, povero di risorse e costituito da docenti precari. Un’università sempre più costosa, sempre meno accessibile, che offre sempre meno possibili sbocchi lavorativi. Assunzioni lavorative con sempre meno garanzie, peggio pagati e con contratti a dir poco precari. Una pensione sognata per decenni, mentre si guardava i colleghi più anziani conquistarla per una manciata di anni, a cui si arriva sempre più tardi e con sempre meno certezze.

E le discussioni politiche continuano a proporre questo modello, del chi ultimo arriva peggio alloggia, come se il paese avesse per anni fatto debiti sugli ultimi e ci si ritrovasse ora, all’improvviso, a pagarli tutti e con gli interessi.

L’identità collettiva vacante

Sabato pomeriggio. Bologna, Piazza Maggiore.

Un uomo, uno sgabellino, dei quotidiani e qualche libro.

Una folla casuale si raduna. Alcuni passanti incuriositi si fermano. Molti indugiano per ascoltare, qualcuno interviene, molti osservano per qualche istante e poi si allontanano.

 

Il mediatore conduce un dibattito. Propone un nuovo risorgimento, un risorgimento di popolo, per liberarsi dall’oppressione di quella che definisce una dittatura mascherata da repubblica.

Gli interventi si susseguono, si accavallano, sovrappongono. Alcuni sono inerenti altri poco azzeccati. Per molti non c’è abitudine all’ascolto né al ribattere rispettoso.

Emerge un leitmotiv che stranamente non è l’insoddisfazione nei confronti dell’attuale situazione economica e politica. Quello è il motivo per cui la folla si raccoglie. Ma il problema che appare a tutti evidente è la totale assenza del senso di comunità e collettività, la prevalenza degli interessi del singolo sul bene comune, della sopraffazione sul senso di cittadinanza.

 

Italia, paese diviso, paese corrotto dove il malaffare è cosa di tutti. Dei politici, delle caste e soprattutto del cittadino qualunque. Appare integrato nella cultura, sembra uno dei pochi elementi che tristemente ci accomuna.

 

Costruire per prima cosa un noi, un senso di appartenenza, che conduca ad un’azione collettiva e condivisa è l’obiettivo. Per ora rimane solo l’utopia di una ristretta e confusa massa casuale di passanti, dalle visioni avveniristiche catastrofiche eppure preoccupantemente realistiche.